Architect and the City: Georgina Lalli

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“Quando avevo otto anni e mi sono trasferita dall’Argentina alla Sardegna, erano gli anni Novanta. Eppure, quando si è trattato di richiedere l’ammissione alle elementari, sono stata accettata da una sola maestra: le altre pensavano che non fossi in grado di imparare l’italiano!”

Chissà se il merito spetta a quella prima sfida, ma nei 22 anni successivi Georgina Lalli non ha mai smesso di imparare. Ha cambiato città e nazioni, alla volta di nuove esperienze umane e professionali, fino ad approdare al prestigioso BAM Studio di New York.

Durante l’intervista, ripete spesso “Sono stata fortunata”.
Eppure, credo che in realtà quella fortuna sia stata costruita con gli stessi toni allegri e decisi della sua voce.
Chissà, forse mi darete ragione. Anche se è un peccato che dobbiate accontentarvi di leggere le risposte: il suo entusiasmo vi avrebbe contagiati in un attimo.

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Dopo la laurea in Architettura a Firenze, il ritorno sull’isola e sei mesi in attesa di un tirocinio qualificato sono più che sufficienti per prendere la decisione di cambiare nuovamente progetti e città.

La scelta ricade sulla Spagna, per il costo della vita più contenuto e la possibilità di fare esperienza in uno studio affermato. L’anno successivo, con la pubblicazione del Master and Back, comincia a considerare l’idea di approfondire gli studi. “Se puoi usufruire di un rimborso, allora devi puntare al meglio”: così, la scelta ricade sull’ambita Columbia e la londinese Architectural Association. Ottiene l’ammissione a entrambe, ma sceglie la prima in quanto la Scuola britannica dell’Ordine degli Architetti non rientra nei termini previsti dal bando. A cosa è dovuta una selezione basata esclusivamente su università straniere?

“Le università italiane offrono tante basi, ma poca specializzazione. Un architetto viene considerato giovane fino ai quarant’anni, perché questa professione ha dei campi di conoscenza talmente ampi che è impossibile pretendere di sapere tutto in cinque anni. Però non ti vengono dati gli strumenti giusti, non si accede al mercato del lavoro con le capacità richieste. Il mio interesse era quello di colmare le lacune in campo tecnologico. La Columbia, fra le università americane, rimane quella più avanzata e allineata alle novità: ad esempio, noi abbiamo imparato a sviluppare app, codici di programmazione, software di scripting e disegno. Quando sono arrivata, le lezioni erano già cominciate e mi trovavo indietro rispetto agli altri studenti. Ci ho ripensato pochi giorni fa, ascoltando una delle TED talks in cui una sociologa parlava del ‘fake it til you make it‘: è stato così anche per me. Lo è tuttora. Se non me la sento, mi tiro su e…vado!”.

Le graduatorie del Master and Back vengono presentate soltanto alla fine del percorso, così Georgina chiede un mutuo, senza avere ancora la certezza del rimborso. “Per essere appetibili nel mercato del lavoro, bisogna essere pronti a investire sulla propria formazione e su se stessi. In Italia siamo troppo abituati ad aspettare l’occasione perfetta che ci evita di rischiare. Il sistema assistenzialista degli ultimi decenni sta fallendo, e finché non cambieremo idea su ciò che ci spetta di diritto e ciò che invece dobbiamo conquistare, le cose non andranno avanti”.

Frequentare un master negli Stati Uniti implica l’estensione del visto, per consentire ai neolaureati di inserirsi nel mercato lavorativo. Trascorso il primo anno, è necessario avere alle spalle una compagnia che sponsorizzi il visto da lavoratore. Difficile, ma non impossibile: gli stessi tutor universitari si attivano per fornire collegamenti e dar vita a incontri lavorativi, e dopo i primi mesi da freelance è possibile approdare a contratti più stabili. Stabilità che non significa permanenza: la flessibilità riacquista un’accezione positiva e permette di ritrovare un lavoro perso in meno di un anno, oppure di migliorare e cambiare la propria posizione, senza i sensi di colpa tipicamente europei della rinuncia a un “posto fisso”, che di fatto non rientra fra le opzioni professionali.

 

Dal novembre 2011 a oggi, Georgina viene assunta come project manager in una nota compagnia di New York che si occupa prevalentemente di health care. Velocità, serietà e capacità di management sono parole chiave: “Quando lavori con il commerciale, riesci a produrre in tempi brevi un sacco di disegni grazie al BIM, un programma in versione avanzata di cad che permette di essere più efficienti, grazie all’inserimento di una quantità di informazioni molto più ampia. Questo agevola le collaborazioni con altre categorie professionali come ingegneri meccanici o elettrici, e permette di rendere lo studio un’impresa competitiva sul mercato”.

Senza mai dimenticare la vocazione al design, l’esperienza le permette di accumulare conoscenze nel campo del business, sempre più utili e richieste, e che vorrebbe esportare in Italia, dove “Ci sono tante persone in grado di eccellere nel loro lavoro, ma non di fare i manager. Tante piccole imprese sono in grado di redistribuire la ricchezza meglio che negli Stati Uniti, dove le corporazioni la fanno da padrone; però mancano quelle competenze specifiche del project management”.
Il confronto fra i suoi due mondi la riporta all’interesse principale: “C’era molta più sostenibilità nelle costruzioni degli antichi Romani che negli edifici più moderni. Ora bisogna pensare a sistemi di massima, è una questione di equilibrio fra ciò che ti è permesso dal mercato e ciò che viene richiesto dal cliente. Ma se i clienti non vengono informati ed educati ai benefici apportati dai nuovi metodi, sceglierà la soluzione che gli appare sostenibile nel breve termine. È inutile che l’architettura reclami la sostenibilità, se questa non parte da un livello strutturale. È possibile concepire una vertical farm nel mezzo di una città congestionata dal traffico?”

Fra le sue tante case, Georgina sceglierebbe volentieri l’Italia e la Sardegna. Ma la prospettiva di tornare senza avvertire un cambiamento la trattiene: “Quello che sta succedendo in Italia mi preoccupa. Quando arriveremo a quarant’anni, temo che non saremo capaci di gestire le cose, perché non ci saremo mai assunti delle responsabilità. L’idea della formazione post-laurea dev’essere affrontata in modo più serio: sembra quasi che la gente non abbia più paura di perdere il suo tempo. Se non decidi di fare qualcosa della tua vita quando sei in grado di farla, che cosa ne sarà quando avrai quaranta o cinquant’anni? Ho sempre cercato di fare le migliori esperienze possibili, dal master all’aver lavorato in Giappone con Kuma. È importante perseverare, continuare a cercare sempre il meglio. Devi decidere che tipo di persona sei: quella che prende il primo treno, sapendo che la porterà vicino alla meta ma si fermerà a ogni stazione incontrata e ci metterà più tempo; oppure quella che prende solo il treno express che la farà arrivare subito. Io sono una di quelle persone che prendono il primo. Se nel frattempo ne trovo uno più veloce e posso prenderlo in corsa, lo faccio. Ma non riesco a stare ferma ad aspettare”.